la distanza fra le ossa

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Testo critico di Alberto Balletti “LA DISTANZA FRA LE OSSA” a presentazione della doppia personale “LABEL OF INTIMACY – SULLA PRESENZA/ASSENZA DEL CORPO” di Erika Negro e Federica Montesanto

La mostra si è tenuta ill’interno della manifestazione “CHANGE OVER – RASSEGNA D’ARTE CONTEMPORANEA”

SALA METALLICA – CENTRO CULTURALE LEONARDO DA VINCI, San Donà di Piave (Ve)
Piazza Indipendenza

INAUGURAZIONE SABATO 29 GENNAIO 2011, ORE 17.OO

L’incontro con le opere di Federica Montesanto e Erica Negro mi ha colto sul limite di una riflessione che si avvitava. Nelle loro visioni dipinte ho ritrovato i fotogrammi persi di cui necessitavo per colmare una mancanza. Del tema “il corpo” e della sua presenza/assenza a noi stessi nella tecnologica sostituibilità della protesi ho avuto modo di occuparmi, per vicissitudini poetiche, da anni, e mi accanisco ancora per sciogliere dubbi che io definisco pratici e quotidiani, ma che desidero condividere oltre me. Fuori. Nei quadri che potrete pensare con gli occhi. In questa esposizione c’è la volontà di riemersione del dato sensorio. Si concretizza la premura a non perdere l’occasione di rivedere. Si afferma che “qui il corpo si riesuma”! E quei miei pezzi mancanti finalmente tornano.
Il corpo vent’anni fa era stato “ufficialmente” condannato all’asfissia autoestintiva nell’importante mostra “Post human” di Jeffrej Deitch, nella quale, profeticamente, se ne indicava il probabile necrologio.
Nella poetica di Montesanto e Negro s’intravede una risposta intelligente, un antidoto alla perdita insufflato in un sottopelle esausto come fosse una sostanza legale: il desiderio prematuro di non riferirsi a nessun dato speculativo esterno al proprio quadro. Un corpo slegato dal destino del denaro. Ad asserire una licenza, forse e grazie alla loro qualità di giovani artiste. Federica e Erica, esposte loro stesse, introducono concettualmente il dubbio che, quando ci si pensa fisicamente, si può essere portati a percepirsi dentro alla propria struttura corporea come si fosse una impalcatura ossea: una struttura temporanea fatta di tubi “Innocenti” che sorreggono il corpo in modo simile alle costruzioni provvisorie di un cantiere che si adopera a edificare una casa, o peggio in un post-terremoto eterno. Diversamente, una simile idea di corpo, non ci sorregge quando avviciniamo i nostri oggetti del desiderio perché, nei nostri momenti eroici, siamo “tutti d’un pezzo”. Va notato, forse banalmente, che l’impalcatura nel caso umano, è interna, ma medicalmente è provato che gli strati anatomicamente profondi non sono resi sensibili alla coscienza nel suo stesso essere organismo senziente. In assenza di lesioni gravi, non possiamo percepire le ossa, le articolazioni e persino i nervi ci sono risparmiati: gli strati profondi non li sentiamo. La sensazione di stanchezza che proviamo dopo uno sforzo estremo è definibile solo come un incipit simbolico. Il nostro corpo ci contiene come ospiti, relegandoci nella gioventù della salute e pienezza fisica e grazia atletica. Dimentichi della nostra ètà.
Appena ci addentriamo nel dolore, nella malattia o nell’incidente si svela il brutale trucco che ci aveva incantato e che avevamo spesso chiamato con spensieratezza “gioventù”, mentre ne gustavano i fasti, mitica immortalità! Da quel momento si imprime nella memoria una fisicità morfica molto personale e adesiva a un essere soli. Il sole nero.
E’ ragionevole considerare che percepirsi fisicamente come ammasso di tessuti morbidi e calcificati, semplici, pulsanti non ci permetterebbe di distrarci fisicamente dalla nostra natura di esseri glabri, a rischio, perennemente esposti a una psicologia da morenti. Noi sentiamo che solo in superficie il nostro derma è teso verso la resilienza esterna dei tessuti molli della nostra pelle, con una particolare apprensione per tutto quello che si abbatte contro il nostro ventre. Compresa la temperatura, da cui ripararci. Certo lo scheletro ci sorregge, ma non ci facilita e le sue fessure ci rendono fragili e fratturabili. Lo spazio fra esse è ostativo. Questo è il luogo delle distanze fra le ossa. Là dove questi stessi interstizzi si possono percepire. Restiamo sempre soli nella registrazione passiva della nostra unicità. Troppo animali, dopo millenni di lavoro sub-liminale!
Se come fin qui sostenuto, senza originalità e con ammissione di vulnerabilità fisica e filosofica, la percezione del sé corporeo potrà riconoscere alla debolezza un valore protettivo, potremo considerare il sentimento e la digestione (che si sarebbe portati a considerare come moti molto esterni e profondi in un concepimento estetico) in una prospettiva divergente, pari a due indirizzi cui diversamente rispondiamo all’esterno. Come fossero due link prossimi o amici a cui affidare la password del nostro orientamento e, in parte, la vulnerabilità e la sopravvivenza in rete. I poli da cui far partire i comandi emotivi e istintuali in risposta a un danno “da brividi” che salgono dalla schiena, vertebra dopo vertebra e, solamente poi, al nostro improbabile status mentale.
Tutto torna sempre a due elementi distinti e distanti. Il ventre e la stanza. I due luoghi simbolici del vuoto e dell’abbandono che incostantemente cerchiamo e riempiamo di noi. E poi svuotiamo. Sempre con i nostri oggetti e con la ripetitiva fagocitazione dei nostri soggetti, su cui concretizziamo le nostre incertezze. Vuoti a perdere dei nostri riciclaggi persi. Irriciclabili al nostro ingurgitare bulimico. Stanze vuote, prive di gastrite, dipendenti dal malox più che dall’aria.
Alla luce della tensione tra la superficie riflessa del mondo e il peso subito dallo scheletro in zona basso spinale, spesso inguinale, quasi privati della distanza fra le ossa che ci reggono, tra le superfici mnemoniche, umide, dei ventri esposti alla vergogna di Federica Montesanto e nelle camere eviscerate temporaneamente di presenze fisiche, pregne di dati olfattivi storici non deodorati, da spray di seconda scelta di Erica Negro, intercorre un cortocircuito da cui non si può distrarre lo sguardo. Una presenza umana risentita nel suo stesso odore. Un mirare dentro, calibrando occhi non visivi, ma visuali, che dal guardare e dal vedere e poi dal vistare a sé e alla propria scorta visiva, conduce al suo stesso farsi carico. Visionari della propria coscienza, inscatolati dentro, come prodotti di carne decisi altrove, in possesso di un rivoluzionario apriscatole. Materia grigia improbabile alla produzione di un altrove tecnico.
In questa negazione diffusa e passivamente spossessata da un valore umano legato alla ricerca di segno autografo e libero, l’io delle nostre due artiste soffre, ma non si piega. La giovane resilienza denuncia il suo diritto a esporre le proprie idee, affronta questo rischio. E ci ricorda che valere è avvalersi di idee. Nuove.
Mantenere ed esercitare la vista sembrerà forse banale, ma conquista posizione alla persona. Poi il segno determina il passaggio e contemporaneamente stratifica e media il segno autografo (graffio, pennellata, taglio, scavo), fissando un senso a favore dell’essere presenti a sé. Registra l’organizzazione semantica di un punto di vista condivisibile, si fa garante dell’astratto organizzarsi a sé del segno personale. Semplicemente ridà ossigeno a una tradizione che all’oggi pare sospetta e tuttavia si può ancora fare vanto delle visioni adamantine qui esposte.
Alberto Balletti, novembre 2010