“Highway to hell” di Jiang Heng evento collaterale della 56th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia

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“Highway to hell” di Jiang Heng, evento collaterale a Palazzo Michiel sul Canal Grande, ingresso da Strada Nova, prende il titolo da un LP del 1979 degli AC/DC, aprendo verso la Cina contemporanea su una posizione critica del suo accelerato percorso di occidentalizzazione.

La temperatura tematica dell’allestimento di Jiang Heng ha una alta frequenza linguistica basata su una estrema miscellanea che esterna una specializzazione su due livelli, della tecnica e del mix dei soggetti. Un cocktail molto dolce, ma a forte gradazione.

La pittura a olio nell’estromissione di qualsiasi elemento che offuschi la centralità del fuoco sul soggetto, addizionata alla melanconica visione tipica della Cartoon Generation, posiziona i quadri in un post modern perfetto, l’origine poetica anni novanta dell’artista. Uno stile ibrido divaricato fra elementi di facile assimilazione pop legati a un potere di acquisto tipico della società globalizzata e la sua ironica quanto tetra corrosione. Jiang Heng sfrutta un travestitismo tematico spettacolarizzato, privo di sgocciolature, a elevato realismo ripulito da qualsiasi noise. Come sottolinea Alessandro Riva nel suo testo in catalogo, se questa pittura dichiara nella perfezione dell’esecuzione uno sfondamento dei canoni accademici (laddove se ne percepiscono pesanti tracce sono autocitazioni), non è celata una postuma e rovinosa integrazione al “bad dream of Western society” di Guy Debord. Jiang Heng non sembra ottimista, ma non sono i soggetti a tradire il suo dubbio, bensì la meticolosità.

La curatrice Ilaria Bonacossa evidenzia nella comparazione Barbie-girls e scheletri dipinti con una tavolozza di tipo tradizionale la curvatura kitsch della corrosiva critica di “Highway to hell” tra vita e morte.

Un terzo testo in catalogo di Ji Shaofeng apre interessanti letture da un punto di vista interno della cultura cinese. Viene ben esposta la relazione delle poetiche cinesi tradizionali, la loro specifica trasformazione durante il periodo della rivoluzione culturale quando la vocazione sociale era ritenuta prioritaria rispetto al dato poetico intimo e la successiva ribellione degli artisti nella fase di apertura ai mercati globali, con tutto lo scompiglio che ne è conseguito. Jiang Heng tra l’altro è di Guangzhou, la città dei fiori, vicina a Shenzen, distretti in cui si avviarono le economie aperte, in prossimità di Hong Kong. Interessante approfondire come la pittura accademica legata al socialismo cinese sia passata, attraverso una generazione di ribelli a cui Jiang Heng è appartenuto, direttamente alle tematiche post modern degli anni novanta. Direttamente alle teorie della società dei consumi di Boudrillard e contemporaneamente alle visioni global postideologiche e posthuman. Le contraddizioni dell’apertura ai mercati internazionali hanno avuto un impatto nella nella società e nella cultura cinese mai vista prima nell’era industriale. Proprio nel paese dove sono migrati i capitali occidentali, proprio dove hanno trovato la classe operaia ideale perfettamente plasmata da decenni di regime, risultato ideale per il passaggio di millennio.

Jiang Heng con i suoi Bloom and Fading of Flowers non lascia scelte: sipari fioriti per uno spettacolo già finito. Così i fantastici teschi di ceramica decorata sono seriali ma unici. E i blow up smaltati delle capsuline di gelatina estetizzano la fascinazione tutt’altro che medicale della sintesi degli psicofarmaci e delle droghe sintetiche. Parodie di una società perfetta in facciata, che fornisce alle nuove generazioni sfavillanti gadget. Ecco i trolleys, icone del viaggio che transita i non-luoghi aerei, a innocente misura lowcost che nella sfacciata trasparenza non occultano bombe. Sono imbottiti di rose di plastica e barbies.

La straripante perfezione di questo allestimento e il bellissimo catalogo insinuano un dubbio che rimarrà insoluto, anche per essere stato attentamente mal celato. La necessità di un’equipe di tecnici e di grafici non mette in dubbio l’originalità del prodotto/opera, ma altrettanto non supporta automaticamente la chiarezza del portato poetico. E questo astuto mix di certezza e confusione sentimentale in ultima analisi salva dall’eccesso di perfezionismo stilistico l’artista, ributtando lo spettatore (in questo tipo di allestimento il visitatore appartiene alla categoria di pubblico) in una foschia pruriginosa. Un pubblico resettato ocularmente in un’insperata verginità “tween” (“too old for toys, to young for boy”).

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