IN/Carne E.Di Mauro

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IN/Carne
di Edoardo Di Mauro

Il tema proposto da Alberto Balletti per questa rassegna, “IN/Carne”, e le interessanti considerazioni contenute nel suo testo introduttivo,  mi hanno subito fatto venire in mente una serie di saggi da me redatti attorno alla metà degli anni zero su spunto offerto dal collezionista e curatore Fabrizio Boggiano, centrati sulla poetica del corpo e sul rapporto intercorrente in una fase di contemporaneità avanzata tra quest’ultimo e la pratica dell’arte, sempre più contaminata dall’invasività delle nuove tecnologie il cui filo conduttore era riconducibile a quella “ crisi della presenza” che mi pare sia rinvenibile all’interno del nucleo concettuale di questa rassegna e centra al cuore una delle tematiche centrali della scena artistica contemporanea. Il tema della presenza è, in realtà, implicito al concetto stesso di arte fin dai più remoti esordi, in particolare nelle correnti filosofiche sin dall’antichità impregnate di spirito pragmatico e razionalista, che, nel corso del Novecento, sfoceranno nella fenomenologia e in tutte le correnti di pensiero ad essa collegate. Infatti per Husserl, padre della fenomenologia, il carattere specifico dei fenomeni psichici è nella loro intenzionalità, cioè nella loro direzione verso l’oggetto. Nell’antichità classica Aristotele supera l’interdetto platonico nei confronti della percezione visiva, vista come interpretazione delle cose derivante dai sensi, quindi fallace e menzognera, fornendo una teoria dell’arte come mimesi naturalistica. Bisognava fare “come la natura”, in quanto azione artistica e divenire naturale presentavano precise omologie da un punto di vista processuale. Questa intuizione viene ulteriormente radicalizzata e “mondanizzata” all’interno della stagione ellenistica caratterizzata dall’estetica dello stoicismo. La metafisica stoica si muove non tanto in direzione della forma quanto in quella dell’evento. La funzione dell’artefice nei confronti del mondo come presenza partecipe e vitale viene simboleggiata dalla figura del danzatore, che occupa la dimensione spaziale con passi agili e precisi, frutto di determinate regole derivanti da una rigorosa disciplina, in cui la norma si unisce al caso manifestandosi nell’epifania del “qui ed ora”. Viene quindi anticipata la dimensione della performance, in cui l’artista adopera le funzioni corporee per interagire con l’ambiente, stabilendo il massimo livello di “presenza” nell’ambito dell’avanguardia novecentesca. Vari poi sono i passaggi di testimone tra “presenza” ed “assenza” nella successiva, ciclica evoluzione della storia dell’arte in parallelo con quella della cultura, ed enunciarli tutti con dovizia di particolari richiederebbe la stesura di un apposito ed articolato volume. In sintesi si può dire come siano caratterizzate dal modello della “presenza” quelle stagioni in cui si sono rese possibili fondamentali mutazioni del linguaggio, per circostanze in cui gioca un ruolo preponderante l’ambito relativo alla cultura materiale, quindi l’innovazione tecnologica, così come le condizioni strutturali dell’apparato socio – politico. Sotto questa etichetta si possono collocare la stagione rinascimentale, quella barocca, pur tra alcune contraddizioni all’interno di un sistema, quello secentesco, estremamente articolato, la seconda metà dell’ 800 e tutto il corso del ‘900, dall’esordio “esplosivo” delle avanguardie storiche fino alla metà degli anni ’70. Nelle fasi prima citate l’uomo si pone di fronte alla natura ed al mondo con spirito protagonista, stabilendo con l’esterno il massimo di “apertura” possibile.  Con il termine “assenza” si possono invece indicare, per sommi capi, quei periodi di stasi e di riflessione che si manifestano in concomitanza con passaggi epocali in cui è l’intero apparato sociale a dover ridefinire un ruolo ed una funzione. Sotto questa egida possiamo collocare la stagione manierista, quella del Neoclassicismo e, naturalmente, quanto è avvenuto nel nostro sistema artistico, non più solo europeo ed occidentale ma ormai tendenzialmente globalizzato, dopo il 1975. In queste fasi storiche, seguenti puntualmente stagioni di grande propulsione innovativa, gli artisti, consci di non potere, al momento, porre in essere ulteriori segmenti di innovazione si cimentano in quella che il filosofo francese Gilles Deleuze con felice terminologia, definì, negli anni ’70 “ripetizione differente”, intendendo con ciò la volontà di andare a pescare frammenti di immagini e di pensiero all’interno dell’immensa banca dati della storia dell’arte per ricontestualizzare il tutto al presente come se si manifestasse per la prima volta. Il rapporto dicotomico tra “presenza “ ed “assenza” diviene assolutamente centrale nel dibattito artistico a partire dall’immediato secondo dopoguerra. L’Informale, che fu la prima corrente  diffusa su di una scala ampia, che non si limitava più all’ambito occidentale, si manifestò con le modalità di un linguaggio aperto al mondo ed all’esperienza, in un rapporto di coinvolgimento e di transazione con l’ambiente che intendeva andare oltre lo schematismo interiore di buona parte delle avanguardie storiche, che tendeva a sfociare in una rigida geometria delle forme. Inevitabile, e preparata da un secolo abbondante, la fuoriuscita dell’espressione artistica dal sito tradizionale della bidimensione con relativa invasione spaziale dell’ambiente, tipica di parte della stagione pop e, per intero, di quella del Concettuale, sia nella versione “mondana”, Land Art ed Arte Povera, che in quella tautologica e rigidamente mentale caratterizzata, tra gli altri, da gruppi come Art & Language e singole personalità come Sol Lewitt e Joseph Kosuth. La smaterializzazione progressiva dell’opera e la quasi sparizione del livello iconografico determinarono quindi la crisi del Concettuale, ormai condotto alle sue estreme conseguenze, e l’ingresso nella successiva stagione, caratterizzata dal ritorno della manualità pittorica dapprima e, successivamente, da una lunga stagione di citazione degli stili e delle tendenze caratterizzanti l’intero corso del Novecento sullo sfondo di una società caratterizza dall’invadenza tecnologica e mediale. Il tutto non casualmente incorniciato in uno scenario sociale palesemente di passaggio e mutazione. L’essere entrati in  maniera decisa e definitiva all’interno di quella contemporaneità più volte annunciata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalle prime applicazioni pratiche dell’elettromagnetismo nell’ 800 ha generato grandi aspettative ed altrettanto intense angosce. Da un punto di vista artistico in questi anni si confrontano punti di vista differenti rispetto a quella che attualmente è una indubbia crisi del modello della “presenza”. Ad esempio in una  visione, sostanzialmente “apocalittica”che sostiene come il ruolo dell’arte sia attualmente interamente assorbito dalla visualità della pubblicità e dei media, e che quindi la partita vada giocata interamente sul fronte dell’”assenza” ricorrendo alla poetica del frammento e del dettaglio, visto come esemplare “parte per il tutto” in grado di fornire ancora un senso all’esperienza visiva o chi invece in questi anni rinviene elementi di maggiore speranza riproponendo la “presenza” nei termini di una insolita alleanza tra i miti arcaici, le simbologie religiose della premodernità con la realtà futuribile delle nuove tecnologie, in una civiltà, la nostra, dove è necessario, ormai, dare per scontato come la cultura del logos sia stata sostituita da quella dell’immagine e ci si incammini in direzione della costruzione di una nuova estetica, dove il confine tra arte e vita è ormai sempre più ravvicinato. Relativamente alla tematica artistica del corpo essa è per sua natura connaturata all’essenza stessa della disciplina e si relaziona con il rapporto intrattenuto dall’uomo con il divino. Dalla statica imperturbabilità della scultura classica sostenuta da Platone, alla “teologia della carne” vista come centralità del corpo umano nell’arte religiosa durante il Rinascimento, in cui l’artista si poneva orgogliosamente di fronte a Dio rivendicando un ruolo da protagonista e da plasmatore della natura in sua vece, in opposizione alla passività mistica della stagione medievale al Barocco, dove le esigenze erano principalmente di difesa del dogma tramite la suggestione procurata da scene di martirio e di devozione nel cuore dei fedeli tentati dal rigore della riforma protestante. Come sottolineato da Alberto Balletti l’esposizione propone una visione di artisti che scelgono come soggetto il corpo umano nella sua accezione emergente e contraddittoria tipica della contemporaneità: l’incorporeità. Il distacco apparente sia dalla materia che dall’orizzonte metafisico, la realtà virtuale da cui siamo circondati non fa perdere all’uomo il desiderio di creare cloni e mondi paralleli dotandoli di un’anima e plasmandoli, in vece di Dio, con il soffio primordiale della creazione. Nella stagione post moderna abbiamo avuto, negli anni ’70, il fenomeno estremo della “body art” il cui il corpo si liberava dai vincoli in cui era stato ingabbiato per lunghi secoli e dalla cui sudditanza non  era stato pienamente emancipato dalla società capitalista, e riscopriva sé stesso come elemento comunicante ed autonomamente “artistico”, andando a fondersi empaticamente con l’esterno e l’altro da sé a partire dalla propria condizione di consapevolezza interiore. Ai giorni nostri i termini della questione, gli elementi dialettici, sono rinvenibili all’interno del diffuso tentativo di ricostruire una identità individuale, sottraendola alla dispersione cui pare destinata dagli ambivalenti e leggermente ambigui effetti dell’innovazione tecnologica e dell’informazione globalizzata. Quindi, all’identità dispersa e frammentata, pura forma e significante incapace di intrattenere rapporti con il prossimo con cui si limita a fugaci ed effimeri contatti, eteree toccate e repentine fughe, si cerca di sostituire il contenuto capace di dare significato all’esistenza, di riaffermare la “presenza”. Negli ultimi tempi abbiamo assistito all’interno dello scenario sociale, e in Italia ciò e avvenuto con una particolare evidenza, ad una ulteriore deriva del concetto di corpo. Sopratutto per quanto concerne una sorta di nuova politica della sopravvivenza dove l’attenzione maniacale verso il proprio aspetto fisico è vissuto come dovere primario, e la consolazione consiste nella successiva mercificazione di sé, nel raggiungimento di una competitività in cui gioca un ruolo primario il proprio aspetto fisico. Modificare il corpo per via chirurgica, robotica o cibernetica è l’assunto post moderno per garantirsi la sopravvivenza al di là del rischio premoderno della dipartita fisica come negazione dell’esistenza individuale. Gli artisti presenti nella mostra ospitata nelle suggestive sale della Fondazione Cominelli dimostrano di saper affrontare questa sfida con consapevolezza e senza ricorrere a scorciatoie formali, al puro virtuosismo tecnico. Questi autori ricorrono all’autenticità non clonabile del loro segno personale. Adoperando parole di Balletti da me pienamente condivise “ il segno personale dell’artista è l’unico in grado di garantire in diretta l’unicità del gesto contemporaneamente alla visione organica e non ottica”. Con il disegno si è in grado di realizzare un’immagine con il tramite del pensiero, e questo procedimento è in grado di fornire  una visione mentale non percepibile nella realtà. Gli artisti hanno interpretato tutti con grande sensibilità il tema della mostra. Tra gli autori dotati di lunga storia personale Arcangelo propone delicati disegni a tecnica mista dove trapelano inquietanti ombre del passato, Alberto Balletti tratteggia un’immagine ancestrale che simboleggia l’alienante difficoltà comunicativa e relazionale dei nostri giorni, Omar Galliani è uno degli artisti italiani dotati di maggiore sensibilità nella pittura e nel disegno dove immagini di assoluta vicinanza al nostro vissuto quotidiano vengono filtrate in una dimensione onirica che ne accresce l’impatto emotivo, Giuliano Guatta con il tenue tocco delle matite tratteggia sagome e persone collocate in un contesto di stimolante atemporalità, Giordano Montorsi propone dei disegni a tecnica mista di grande forza ed in grado di dispiegare la loro potenza comunicativa anche nella piccola dimensione con un’iconografia simbolica dove prevale la circolarità tra alto e basso, luce ed oscurità, Sandra Moss dà nuova attualità all’antica estetica del sublime ricontestualizzandola al presente pur senza avvalersi di scorciatoie formali ad effetto ma prediligendo una visione organicista dell’esistente visto nell’essenzialità della sua origine archetipa. I numerosi giovani autori presenti in mostra, che ha anche una precisa valenza didattica tesa ad affermare l’attualità dell’insegnamento della pittura, del disegno e dell’incisione sottolineata da Balletti, Montorsi e Galliani, docenti presso l’Accademia di Venezia e Carrara, dimostrano grande maturità professionale e non a caso molti di loro stanno intraprendendo delle promettenti carriere. In mostra ed in catalogo è possibile ammirare lavori di Cornelia Badelita, Elisa Bertaglia, Elena Bovo, Laura Cangelosi, Federica Casagrande, Cora Chiadevale, Lara Costa, Nebojsa Despotovic, Paolo Dolzan, Alessia Francescato, Dario Lanzetta, Raffaele Minotto, Federica Montesanto, Erica Negro, Miriam Pertegato, Jennifer Salvadori, Caterina Sbrana, Mattia Serra, Barbara Vianello.

settembre 2010

Edoardo Di Mauro è docente della Accademia Albertina di Torino, direttore artistico del Museo d’Arte Urbana di Torino e della Fusion Art Gallery

“IN/Carne: nuovo emporio della corporeità residua”, 2010mostra di disegno e grafica d’arte,Palazzo della Fondazione Cominelli, Cisano di San Felice del Benaco (BS), a cura di Edoardo Di Mauro (testo in catalogo)