IN/Carne 2010 A.Balletti

0
749

Nuovo Emporio della Corporeità Residua
di Alberto Balletti

[1]
Simbolicamente l’idea di questa di mostra  nasce al liminale del 2010 come termine di un decennio incompreso. Il ventesimo secolo è finito dieci anni fa, e noi abbiamo continuato a lavorare fino a oggi “fuori contratto”, come si direbbe sindacalmente. Nessun “ismo” è più stato affibbiato a movimenti artistici, durante questi dieci anni di vacanza critica, che almeno ci ha lasciato lontani dalle eclatanze a riflettere, a disegnare e a riorganizzare mostre. Senza curatori, ormai inabilitati alla conoscenza del segno tracciato sul foglio come autografo della coscienza del sé.
[2]
Questo testo è un pezzo critico, sintesi di riflessioni tra artisti: il succo di un procedimento di reverse engineering del fare arte. La decostruzione è soluzione estrema, necessaria. E’ la prima risposta possibile conseguente alla sovraesposizione davanti allo schermo ultrapiatto dei luoghi comuni e superficiali di un “pubblico” (non più “fruitore”), spesso disorientato dalla malia di una società dell’immagine liscia e frontale in cui vive la sua quotidianità mediale, e a cui all’artista è obbligato a rispondere devotamente. La risposta proviene dagli stessi luoghi in cui lo sguardo di scorcio e penetrante dell’artista registra “diversamente” con l’alfabeto segnico (ai più poco domestico), profusioni di accadimenti percettivi spesso dilatati nel tempo e nella memoria, difficilmente assimilabili dai mezzi mediatici. Ci si interroga sul come e perchè esista ancora questa necessità (in una ristretta cerchia di intellettuali che vengono poi visti, nel migliore dei casi, come un’elite) di riflettere e confrontarsi sul fare grafia segnica.
[3]
L’esposizione di grafica “IN/Carne” propone una visione figurativa di artisti che scelgono come soggetto il corpo umano nella sua accezione emergente e contradditoria tipica della contemporaneità: l’incorporeità. La carenza di ricerca della critica e l’estetica negli ultimi dieci anni lascia ai neo curatori-artisti il compito di una interpretazione pre-iconi-storica delle problematiche figurative e delle disattenzioni rispetto alle prerogative espositive date agli artisti emergenti dall’ambiente culturale che frequentano. Semplicemente progettano esposizioni in una sorta di terra di nessuno dentro la storia in un regime di supplenza.
“IN/Carne” propone una riflessione sul termine “Arte Figurativa” senza contrapporre tecniche e tecnologie oggi copresenti nel panorama artistico: per esempio il portato intellettuale convenzionale (disegno, grafica d’arte) contro il mediale (foto digitale e derivati video). Si è preferito ricentrare il soggetto sul corpo umano per confondere le tracce delle recenti antitesi stilistiche, per riportare in primo piano nell’analisi contemporanea il suo ancora impellente portato d’espressività, la sua stessa materia: la carne ricomposta davanti al nostro quotidiano mirare.
In questa ricerca tecnico-espressiva sulla carta disegnata o stampata e nella parte teorica, nei testi e negli archivi, ci ha stupito riscontrare un corpo scoperto, visto sottopelle, come se il nudo iniziasse oltre la pornografia. E in questo il disegno, la calcografia e le tecniche digitali (foto e video) hanno molta linfa primeva comune.
Il proposito, anche didattico, di condivisione della figuratività che qui si propone non è scontato nel flusso torrenziale mediatico di immagini. Nella quotidiana copresenza dentro al panorama dei mass media di immagini di origine pubblicitaria mixate con altre classicamente desunte da un archivio derivato dall’immaginario popolare e tradizionale del ben fatto accademico (diciamo estetizzante nella sua accezione superficiale) spesso frequentiamo prodotti visivi scadenti. I parametri di originalità imposti da fasulle esposizioni di “pezzi unici” dentro il reparto “arte” del supermarket televisivo diventano pregiudizi conditi di una diffusa e sviata attenzione mediatiaca della qualità dell’originale come fatto a mano, nella tossicità paradossale del pezzo unico, in una società fortemente imitativa e caratterizzata da suicidaria tendenza al clone. Tuttavia si pretende dall’arte qualcosa che nel proprio vivere non si è in grado nemmeno di esperire, mentre le funzioni sociali dell’arte sono ormai mutate dalla seconda metà dell’Ottocento (dall’invenzione della fotografia nata appunto dai materiali dei laboratori dell’incisione). Questo è uno stereotipo molto diffuso che fa il pari con due frasi fatte che noi artisti ci sentiamo dire: “Lo saprei fare anch’io!” e “E’ un quadro così bello che sembra una fotografia!”
Il fittizio problema della fedeltà al soggetto, (il “sembra vero” per intenderci) sostituisce sovente il sincero problema relativo alla ricerca e al godimento visivo del segno personale. Risulta così deviato dall’attenzione di un pubblico diffuso il concetto di originale verso l’originalità, cioè il lato pop e naif del ritmo “selvaggio” delle pennellate (espressionismo), oppure altrettanto della fusione delle pennellate stesse a scomparire in uno sfumato fotografico (realismo). I due “ismi” più conosciuti e apprezzati.
Insegnamo nelle scuole la sensibilità visiva. Fosse anche solo per rendere più intenso lo stupore di fronte a un tramonto, risvegliando uno sguardo conscio e mnemonico oltre al mero dato retinico. Per intenderci il dato retinico è quello che spinge i possessori di un cellulare dotato di fotocamera a scattare e inviare in diretta qualsiasi cosa sia stata percepita dalla vista come bella o strana. Il processo di identità visiva nell’artista non aderisce a questo compulsivo atto estetico di stimolo-risposta alla mera percezione.
L’ignoranza percettiva ottiene velocemente una mescola velenifica: vale uguale l’atto espressionista a quello realista, ci si accontenta solo di un forte sentimentale sentire non problematico a riguardo del fare. Non importa più cosa stia dietro-dentro le cose ritratte (meglio sarebbe “ritrattate”), a patto che funzionino immediatamente. Altrimenti si cambia canale.
Le due tipologie e i loro sottotitoli specializzanti (realismo ed espressionismo), intersecate medialmente e quotidianamente nei luoghi della memoria volatile del nostro navigatore satellitare, ci portano a un’idea di corporeità certo diffusa, ma non più condivisa. Ecco il fulcro meditativo di questo progetto: riportare al riverbero della dignità di esemplare e non più di copia anche l’ultimo avatar. Nessuna discriminante di stile o di tecnica. Fuori dalla moda estetizzante di un corpo pesato a grammi di grasso, di acqua, di zolfo come risultato di una decomposizione reinventata intellettualmente a ogni cambio di primalinea delle generazioni di storici-critici. Ecco che anche in loro assenza, forse di traverso, si è sfilato un corpo, un fuoriuscito sans-papier di se stesso con l’ombra nel colore sotto pelle, entroriverbero di sé. Una vera carta patinata, ma assorbente e sensibile che in questa decina d’anni abbiamo ritrattato lasciando la resa in quadricromia ai modaioli della vena d’oro dei gossip in carne d’altri (mai pagando sulla loro). Siamo rimasti lì appresso e prossimi a noi i nostri avatar, nuovi di zecca. Non possiamo più prescindere da loro. Pur dovendo ammettere di non essere più riusciti a concepire per loro dei decori, proponiamogli ora almeno una supplenza.
[4]
“IN/Carne” para un corpo intravisto, fa i conti con un’anatomia da risonanza magnetica a colori e in diretta, tratta con visione allargata e condivisa un corpo umano ormai esploso dalla sua stessa rappresentabilità ubiqua, oltre alla sua stessa morte. E’ quello delle tremende immagini dei suicidi delle torri gemelle. E’ quello delle tremende immagini degli uomini-bomba. Un corpo esploso non ha più un’identità possible, solo un residuo luogo espositivo. E’ una macchia cinica da riaddomesticare fuori dalla sua anestetizzata propriocezione. Prima della sua definitiva iperdivinità virtuale.
Il titolo “IN/Carne” non esclude altre tipologie di rappresentazione. Si è voluto concentrare e centrare il problema sulla figurazione argomentando il tema-traccia principale: la figura umana e il suo riverbero mnemonico e immaginifico nell’atto figurativo artistico. Ancora più analizzando nel segno grafico (che non si dissimula, mantenendo in permanenza la sua valenza astratta) l’evocazione della presenza di una figura umana. Escludendo altresì la copia dal modello nella sua funzione di disegno preparatorio.
La domanda posta in termini minimali è se il soggetto “corpo umano”, martoriato da una sovraesposizione di cui facciamo esperienza quotidiana da almeno una trentina d’anni (l’Evo Televisivo ora presentatosi al giro di boa net-digitale), sia ancora nel fuoco delle attenzioni degli artisti, nel suo pulsare sottopelle.
Per rispondere a questo interrogativo si rende necessario dubitare, senza prescindere dalla esposizione catodica del corpo sottratto al suo vero plasma dalla sfinitezza dettata dal network, in altri scritti già denunciata. Il lavoro poetico tiene a sé, come corollario, il panorama sia mediatico che digitale certo come presenti nel contemporaneo, ma prescinde dalle regole del valore aggiunto, per non farsi avviluppare nell’ottica del manichino consumatore finale di un prodotto tagliato su misura altrove.
[5]
Il legame con l’atto creativo non è programmabile, è accadimento, creazione di un luogo di osmosi, non di contatto, e nemmeno di scambio. Forse il termine giusto è cambio, come quegli sportelli alle frontiere, dove lasciando della valuta si ottiene altrettanta carta virtuale di pari peso vitale, spendibile altrove. Segno di carbonio o tagli su zinco del disegno e della grafica versus graffio controluce arrossato su pelle leggermente itirizzita vista la notte prima. E’ molto più interessante per l’artista cogliere cosa subisce nell’urto con la vita uno scafo di cuoio umano, o la sua corretta anatomia posizionata davanti ai nostri occhi condivisi di autore-spettatore? L’abilità spesso invidiabile del dotato si ritorce contro la sincerità: non è buona l’arte che sembra vera, spesso è vera quella che non è buona.
Nell’atto arbitrario del disegno a memoria l’autore è come un San Bartholomeo sgraziato dal supplizio, ma non vinto dall’oltraggio. Gli epicondili si sostituiscono al derma nel resistere all’impatto con la consunzione dello strazio quale lacrima di linfa vitale: sarà in grado di cogliere l’acciaio di una punta, nel vulnus di una vernice di cera, questa stessa lacrima? La sproporzione del mezzo tecnico e la potenza d’astrazione del segno grafico rispetto al dato tonale del reale retinico percepito dall’occhio può essere il luogo dove sospendere momentaneamente dalla mente l’abilità e il calibro del virtuosismo della traduzione realistica. Questo è il luogo in cui beneficiare del puro stato mentale del disegno, il massimo grado d’astrazione concesso al nostro cervello nella elaborazione della visione del mondo percepito dagli organi preposti alla vista. Questo è il luogo dell’osmosi tra reale e bidimensionale segnico.
Il solo strumento in grado di incidere il singolo particolare nella registrazione della visione è il segno personale dell’artista. L’unico in grado di garantire in diretta l’unicità del gesto contemporaneamente alla visione organica e non ottica. L’unico capace di creare un sistema significante astratto e autoreferenziale inesistente in natura e in un certo qual modo ostile alla visione retinica che percepisce per piani colorati. Il segno sfiora senza illudere e crea un solco parallelo che sta tra lo sguardo dell’artista sulla superfice da segnare e il suo scorcio immaginato. Di traverso. Da ciò deriva l’adeguata capacità formale delle arti segniche ad aderire questa tipologia di visione originaria. Per fare un esempio chiaro si pensi che gli animali possono percepire e vedere un quadro dipinto. Diversamente essi non sono in grado di decifrare un disegno.
Forse in assenza dell’eclatanza dei capolavori, il corpo potrà ritrovare la sua luce parvente, il suo peso, così da rivestirsi da sé. Investito di segni. Corpo In/Carne. Senza rinunciare al riscatto intellettuale che prescinda dal segno personale, nuovamente riappropriato proprio sul banco del Nuovo Emporio della Corporeità Residua.

 

“IN/Carne: nuovo emporio della corporeità residua”, 2010mostra di disegno e grafica d’arte,Palazzo della Fondazione Cominelli, Cisano di San Felice del Benaco (BS), a cura di Edoardo Di Mauro (testo in catalogo)